Τρίτη 12 Ιανουαρίου 2021

Luigi Russo: Martedì della I settimana per Annum. Buona giornata a tutti!


 La Sacra Scrittura ci presenta i due aspetti di Gesù, l'umano e il divino. E' bene capire. Agli inizi della Chiesa si sottolineava l'aspetto divino; qualche secolo dopo, con l'arianesimo, si mise in rilievo l'umanità, negando la divinità di Cristo. La Chiesa non poteva rimanere in una visione parziale e insistette sulle due nature in una sola persona, quella del Figlio unico di Dio. L'epistola agli Ebrei sottolinea i due aspetti e il passo di oggi insiste su quello umano: "Che cosa è l'uomo perché ti ricordi di lui? Di poco l'hai fatto inferiore agli Angeli, di gloria e di onore lo hai coronato e hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi".

Gesù è l'uomo ideale, in cui la vocazione dell'uomo al dominio dell'universo si attua in modo perfetto. Nel racconto della creazione si legge che Dio ha costituito l'uomo signore di tutte le creature, ma allo stato attuale delle cose questa vocazione non può essere pienamente realizzata. Soltanto Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha ottenuto una umanità rinnovata e può avere il dominio su tutta la creazione.
Nel Vangelo vediamo che Gesù all'inizio della sua predicazione dimostra questa sua autorità, provocando lo stupore della gente. San Marco racconta nel suo modo caratteristico: vede le cose come se stessero allora accadendo sotto i suoi occhi e tutte avvengono "subito": subito di sabato Gesù entra nella sinagoga, subito un uomo che vi si trova si mette a gridare, subito la fama si diffonde... Qui Marco mette in evidenza due tratti importanti del ministero di Gesù. Il primo è proprio questo: "Insegnava come uno che ha autorità, e non come gli Scribi", non come i rabbini, che sempre si appellano all'autorità delle Scritture, dicendo: "Nella Bibbia è scritto questo e questo", oppure a quella di un antico maestro, o della tradizione. Gesù parlava con autorità: è il Figlio di Dio e può parlare come un maestro che sopra di sé non ha nessun altro maestro. Questo è chiarissimo nel Discorso della montagna: "Avete sentito che fu detto agli antichi... Ma io vi dico..." e Gesù dà un comando diverso, più perfetto.
L'altra cosa che colpisce la gente è che davanti a Gesù i demoni, gli spiriti maligni si sentono in pericolo e perciò si sforzano di combattere e si smascherano: "Un uomo posseduto da uno spirito immondo si mise a gridare: "Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci". Davanti a Gesù non ha potuto fare meno di smascherarsi e Gesù allora può scacciarlo "Gesù lo sgridò: "Taci, ed esci da costui!.", anche qui con grande autorità. Non possiede quindi soltanto l'autorità di un maestro che insegna una dottrina, in l'autorità sopra gli spiriti maligni e la gente è sbigottita: "Che è mai questo?".
Chiediamo al Signore Gesù di manifestarsi anche per noi con questa duplice autorità. Chiediamogli cioè di rivelarci sempre più la sua dottrina, di aprire il nostro cuore quando ci svela, come ai discepoli di Emmaus, il senso delle Scritture, e di smascherare in noi tutto il male che c'è ancora. Il Battesimo ci ha liberati dal demonio, certamente ma in noi ci sono ancora molte cose cattive: lo spirito di discordia, lo spirito di vana compiacenza, lo spirito di egoismo... Bisogna che la presenza di Gesù le smascheri e le scacci, liberandoci dal male.
“ Gesù bussa alla porta del nostro cuore, domanda di fargli spazio nella nostra vita.
Dio è così. Non si impone non entra mai con la forza, ma chiede di essere accolto”.(Benedetto XVI)
Dalla lettera agli Ebrei 2,5-12
Fratelli, non certo a degli angeli Dio ha sottomesso il mondo futuro, del quale parliamo. Anzi, in un passo della Scittura qualcuno ha dichiarato:
«Che cos'è l'uomo perché di lui ti ricordi
o il figlio dell'uomo perché tu te ne curi?
Di poco l'hai fatto inferiore agli angeli,
di gloria e di onore l'hai coronato
e hai messo ogni cosa sotto i suoi piedi».
Avendo sottomesso a lui tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio - per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria - rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo:
«Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
in mezzo all'assemblea canterò le tue lodi».
Dal Vangelo secondo Marco 1,21b-28
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafarnao,] insegnava. Ed erano stupìti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
«La doppia vita dei pastori è una ferita nella Chiesa»: ma se pure hanno perso l’autorità, che viene solo dalla «vicinanza a Dio e alla gente», non devono però mai perdere la speranza di ritrovare «coerenza» e capacità di «commuoversi». Celebrando la messa a Santa Marta, martedì 9 gennaio, Papa Francesco ha messo in guardia i pastori dal «celebrare i sacramenti meccanicamente, come un pappagallo», e dall’aprire la porta alla gente solo a orari fissi. Perché perderebbero l’autorità, appunto, e se anche predicassero la verità non potrebbero capire i problemi della gente e arrivarne al cuore.
«Nel passo del Vangelo che abbiamo ascoltato, due volte si dice la parola “autorità”» ha subito fatto presente il Pontefice, riferendosi al brano dell’evangelista Marco (1, 21-28) proposto dalla liturgia. Nella sinagoga di Cafarnao, ha infatti spiegato ripetendo le parole del Vangelo, «la gente era stupita “del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi”».
È evidente, ha proseguito Francesco, che siamo davanti a «un insegnamento nuovo, dato con autorità: “Comanda persino gli spiriti impuri e gli obbediscono!”». E «la novità di Gesù è questa autorità» ha affermato il Papa. Perché «la gente era abituata agli scribi, ai dottori della legge: loro parlavano e la gente pensava a un’altra cosa, perché quello che dicevano non arrivava al cuore». E così «parlavano lì di idee, di dottrine, anche della legge, e dicevano la verità: questo è vero, a tal punto che Gesù dice alla gente: “ascoltateli, fate quello che loro vi dicono”».
Dunque i dottori della legge «dicevano la verità, ma non arrivava al cuore: era tutto calmo, tranquillo» ha rimarcato il Papa, facendo presente che «invece l’insegnamento di Gesù provoca lo stupore», il «movimento al cuore: “Ma cosa succede?”». Così «la gente lo segue, va dietro a lui perché capisce che quello che dice quell’uomo lo dice con “autorità”».
A questo proposito però Francesco ha invitato a riflettere bene sul concetto di autorità. Infatti, ha precisato, «l’autorità non è: “io comando, tu fai”. No, è un’altra cosa, è un dono, è una coerenza». E «Gesù ha ricevuto questo dono dell’autorità: dico dono, non so se sia giusta la parola, ma lui l’ha ricevuto». Così «quando, alla fine del vangelo di Matteo, si legge l’invio degli apostoli a “missionare” il mondo, lui dice: mi è stata data ogni autorità, sul cielo e la terra. Io sono uomo di autorità. Andate, ma con questa autorità». Come a dire: andate «con questa coerenza».
«È un’autorità divina, che viene da Dio» ha affermato ancora il Papa. Perciò «quando i discepoli lo interrogano sulla data della fine del mondo, lui dice: “Nessuno lo sa, neppure il Figlio”. È un tempo che ha il Padre nella sua autorità». E «questo è quello che Gesù aveva, come pastore, e il popolo parlava di un “insegnamento nuovo”, un modo di insegnare nuovo che stupiva, arrivava al cuore. Non come gli scribi». Gesù, ha ripetuto il Papa, «insegnava con autorità: era un pastore che insegnava con autorità».
«Ma cosa facevano gli scribi?» si è chiesto il Pontefice. «Loro — ha risposto — insegnavano le cose che avevano imparato: nella scuola rabbinica, che era l’università di quel tempo, leggendo la Torah. Insegnavano la verità. Non insegnavano cose cattive: assolutamente no! Insegnavano le cose vere della legge»; ma non arrivavano alla gente «perché loro insegnavano proprio dalla cattedra e non si interessavano della gente».
«Perché quello che dà autorità — una delle cose che dà l’autorità — è la vicinanza e Gesù aveva autorità perché si avvicinava alla gente» ha sottolineato Francesco. In questo modo «lui “capiva” i problemi della gente, capiva i dolori della gente, capiva i peccati della gente». Ad esempio, ha spiegato il Papa, Gesù «capì bene che quel paralitico alla piscina di Betsaida era un peccatore» e «dopo averlo guarito cosa gli disse? “Non peccare più”. Lo stesso dice all’adultera».
Il Signore poteva dire queste parole, ha proseguito il Pontefice, «perché era vicino, capiva, accoglieva, guariva e insegnava con vicinanza». Dunque, «quello che a un pastore dà autorità, o risveglia l’autorità che è data dal Padre, è la vicinanza: vicinanza a Dio nella preghiera — un pastore che non prega, un pastore che non cerca Dio ha perso parte — e la vicinanza alla gente». È un fatto, ha aggiunto, che «il pastore staccato dalla gente non arriva alla gente con il messaggio».
Perciò, ha insistito Francesco, ci vuole «vicinanza, questa doppia vicinanza». E «questa è l’“unzione” del pastore che si commuove davanti al dono di Dio nella preghiera, e si può commuovere davanti ai peccati, al problema, alle malattie della gente: lascia commuovere il pastore».
Invece «questi scribi, questa gente non si lasciava commuovere: avevano perso quella capacità, perché non erano vicini e non erano vicini né alla gente né a Dio» ha ribadito il Papa. E «quando si perde questa vicinanza, dove finisce il pastore? Nell’incoerenza di vita». Gesù, ha fatto presente Francesco, «è chiaro in questo: “Fate quello che dicono” — dicono la verità — “ma non quello che fanno”». È la questione della «doppia vita».
«È brutto vedere pastori di doppia vita: è una ferita nella Chiesa» ha detto il Papa. È brutto vedere «i pastori ammalati, che hanno perso l’autorità e vanno avanti in questa doppia vita». Ma, ha aggiunto, «ci sono tanti modi di portare avanti la doppia vita e Gesù è molto forte con loro: non solo dice alla gente di ascoltarli ma di non fare quello che fanno. Ma a loro cosa dice? “Voi siete sepolcri imbiancati”: bellissimi nella dottrina, da fuori; ma dentro putredine». E proprio «questa è la fine del pastore che non ha vicinanza con Dio nella preghiera e con la gente nella compassione».
Forse, ha affermato il Papa, qualche pastore potrebbe riconoscere di aver «perso la vicinanza» dicendo a se stesso: «non prego; quando celebro i sacramenti lo faccio meccanicamente, come un pappagallo; la gente mi stanca; sono disponibile per la gente da tale ora a tale ora, metto il cartello alla porta; non sono vicino: ho perso tutto, Padre?”».
A questo proposito, ha confidato Francesco, «mi viene al cuore una figura biblica di un sacerdote che a me fa tenerezza: peccatore ma fa tenerezza». È la storia del «vecchio Eli», presentata nella lettura biblica tratta dal primo libro di Samuele (1, 9-20). Eli «era un debole, aveva perso la vicinanza a Dio e alla gente, e lasciava fare» ha spiegato Francesco, evidenziando che «i figli maltrattavano la gente, erano sacerdoti, portavano avanti le cose e lui lasciava ma era lì, sempre, non aveva lasciato il tempio». Un giorno Eli vede Anna pregare «e qualcosa ha attirato l’attenzione su quella donna e l’ha guardata» pensando fosse «ubriaca». Da qui il suo invito ad andare a casa per smaltire l’ubriachezza.
Ma Anna, si legge nel brano dell’Antico testamento, ha rivelato a Eli di non essere affatto ubriaca ma piuttosto «amareggiata per questo, per questo, per questo». Risponde infatti Anna: «Non considerare la tua schiava una donna perversa, poiché finora mi ha fatto parlare l’eccesso del mio dolore e della mia angoscia». E proprio «mentre lei parlava — ha fatto notare il Pontefice — lui è stato capace di avvicinarsi a quel cuore: il fuoco sacerdotale salì da sotto le ceneri di una vita mediocre, non buona, di pastore». Ed ecco, allora, che Eli risponde alla donna: «Va’ in pace e il Dio di Israele ti conceda quello che gli hai chiesto».
Dunque Eli, «che aveva perso la vicinanza con Dio e con la gente — ha proseguito il Papa — per curiosità si è avvicinato a una donna, ma poi l’ha ascoltata, si è reso conto di avere sbagliato ed è uscita dal suo cuore la benedizione e la profezia». E Francesco ha voluto riproporre l’attualità della storia di Eli: «Io dirò ai pastori che hanno vissuto la vita staccati da Dio e dal popolo, dalla gente: non perdere la speranza, sempre c’è la possibilità». Tanto che a Eli «è stato sufficiente guardare, avvicinarsi a una donna, ascoltarla e risvegliare l’autorità per benedire e profetizzare: quella profezia è stata fatta e il figlio alla donna è venuto».
«L’autorità — ha concluso il Papa — è dono di Dio, viene solo da lui e Gesù la dà ai suoi: autorità nel parlare che viene dalla vicinanza con Dio e con la gente, sempre tutti e due insieme; autorità che è coerenza, non doppia vita». E «se un pastore perde l’autorità almeno non perda la speranza, come Eli: c’è sempre tempo di avvicinarsi e risvegliare l’autorità e la profezia». (Papa Francesco,Santa Marta, 9 gennaio 2018)
Dalle «Regole più ampie» di san Basilio il Grande, vescovo
(Risp. 2, 1; PG 31, 908-910)
La forza di amare è in noi stessi
L'amore di Dio non è un atto imposto all'uomo dall'esterno, ma sorge spontaneo dal cuore come altri beni rispondenti alla nostra natura. Noi non abbiamo imparato da altri né a godere la luce, né a desiderare la vita, né tanto meno ad amare i nostri genitori o i nostri educatori. Così dunque, anzi molto di più, l'amore di Dio non deriva da una disciplina esterna, ma si trova nella stessa costituzione naturale dell'uomo, come un germe e una forza della natura stessa. Lo spirito dell'uomo ha in sé la capacità ed anche il bisogno di amare.
L'insegnamento rende consapevoli di questa forza, aiuta a coltivarla con diligenza, a nutrirla con ardore e a portarla, con l'aiuto di Dio, fino alla sua massima perfezione. Voi avete cercato di seguire questa via. Mentre ve ne diamo atto, vogliamo contribuire, con la grazia di Dio e per le vostre preghiere, a rendere sempre più viva tale scintilla di amore divino, nascosta in voi dalla potenza dello Spirito Santo.
Diciamo in primo luogo che noi abbiamo ricevuto antecedentemente la forza e la capacità di osservare tutti i comandamenti divini, per cui non li sopportiamo a malincuore come se da noi si esigesse qualche cosa di superiore alle nostre forze, né siamo obbligati a ripagare di più di quanto ci sia stato elargito. Quando dunque facciamo un retto uso di queste cose, conduciamo una vita ricca di ogni virtù, mentre, se ne facciamo un cattivo uso, cadiamo nel vizio.
Infatti la definizione del vizio è questa: uso cattivo e alieno dai precetti del Signore delle facoltà che egli ci ha dato per fare il bene. Al contrario, la definizione della virtù che Dio vuole da noi è: uso retto delle medesime capacità, che deriva dalla buona coscienza secondo il mandato del Signore.
La regola del buon uso vale anche per il dono dell'amore. Nella stessa nostra costituzione naturale possediamo tale forza di amare anche se non possiamo dimostrarla con argomenti esterni, ma ciascuno di noi può sperimentarla da se stesso e in se stesso. Noi, per istinto naturale, desideriamo tutto ciò che è buono e bello, benché non a tutti sembrino buone e belle le stesse cose. Parimenti sentiamo in noi, anche se in forme inconsce, una speciale disponibilità verso quanti ci sono vicini o per parentela o per convivenza, e spontaneamente abbracciamo con sincero affetto quelli che ci fanno del bene.
Ora che cosa c'è di più ammirabile della divina bellezza? Quale pensiero è più gradito e più soave della magnificenza di Dio? Quale desiderio dell'animo è tanto veemente e forte quanto quello infuso da Dio in un'anima purificata da ogni peccato e che dice con sincero affetto: Io sono ferita dall'amore? (cfr. Ct 2, 5). Ineffabili e inenarrabili sono dunque gli splendori della divina bellezza.

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